Solo nel 1980, con la terza edizione del DSM, la American Psychiatric Association riconosce la tossicodipendenza come disturbo mentale. In precedenza l’uso e l’abuso di sostanze era considerato un problema sociale, morale, legale, eventualmente medico, ma non certamente psichiatrico. Curiosamente nello stesso anno, il Kaplan & Sadock, trattato di riferimento della psichiatria occidentale, riporta per l’ultima volta che “…usata non più di due o tre volte alla settimana, la cocaina non crea problemi seri. Nell’uso giornaliero di elevate quantità può produrre disturbi psicologici minori. L’abuso cronico di cocaina normalmente non rappresenta un problema medico”. Nelle edizioni successive del Kaplan, la dipendenza da cocaina diventa un chiaro problema psichiatrico.
Alla base del riconoscimento della tossicodipendenza come disturbo mentale vi sono gli avanzamenti della ricerca di base e i suoi riflessi sulla clinica. La scoperta dei circuiti neuronali e dei processi molecolari sottostanti ai comportamenti di addiction, l’identificazione nel cervello dei recettori degli oppiacei (e poi delle altre sostanze d’abuso) e dei neuromediatori endogeni dei quali le sostanze d’abuso mimano gli effetti, l’individuazione dei sistemi cerebrali coinvolti negli effetti delle sostanze hanno consentito di gettare le basi per la costruzione della fisiopatologia dei comportamenti tossicomanici.
Tuttavia, l’interesse scientifico per l’area delle dipendenze si è storicamente mosso in un ambito di ricerca poco collegato a quello delle altre malattie mentali, ambito rimasto per lungo tempo separato anche laddove le affinità neurobiologiche e cliniche emergenti indicavano l’esistenza di processi fisiopatologici e psicopatologici comuni. Il risultato di questo andamento è che a tutt’oggi la nosografia psichiatrica offre dell’addiction una descrizione strettamente comportamentale, che prescinde dall’interessamento di altre sfere della vita psichica, come quelle affettiva e cognitiva. La povertà psicopatologica del disturbo che ne consegue obbliga l’attribuzione di coesistenti ulteriori manifestazioni di interesse psichiatrico ad altre categorie diagnostiche, invocabili quali forme di comorbidità.
In realtà, l’accumularsi di evidenze provenienti dalla ricerca neurobiologica, epidemiologica e clinica, spinge fortemente verso il superamento dell’approccio categoriale alle malattie mentali e per l’introduzione di elementi di dimensionalità che possano restituire il carattere di unitarietà ai quadri clinici psichiatrici. Il problema riguarda fortemente il campo delle dipendenze, dove la presenza di doppie e triple diagnosi, peraltro di dubbia validità, costituisce la regola, piuttosto che l’eccezione, e dove, tra le franche forme di comorbilità e quelle nelle quali l’addiction di per sé può giustificare il quadro clinico complessivo, esiste un’ampia gamma di condizioni psicopatologiche la cui definizione diagnostica viene di fatto lasciata alla discrezionalità del clinico. A distanza di quindici anni dal numero di Medicina delle Tossicodipendenze dal titolo “Psicopatologia e Droga” (Dicembre 1996, n. 11/12), dedichiamo un nuovo numero della nostra rivista agli avanzamenti nel campo della psicopatologia e in particolare alle evidenze e al dibattito riguardanti l’area grigia di confine tra l’addiction e le altre patologie psichiatriche.