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Eroina: l’ospite inatteso

Un secolo fa e più precisamente il 18 febbraio 1923 fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia la legge intitolata Provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente, basata sul principio che tali sostanze dovessero avere un uso esclusivamente terapeutico o di ricerca scientifica. Era una legge che rispondeva primariamente ad obblighi internazionali più che a problemi interni derivanti da un loro esteso uso non terapeutico. Mezzo secolo dopo, quasi all’improvviso e malgrado gli ulteriori aggravamenti penali apportati alla legge originaria, l’uso endovenoso di eroina dilagò in Italia segnando o addirittura stroncando la vita di molti giovani. Perché ciò è accaduto, quale conteso socioculturale ha albergato il fenomeno, come ha risposto la società? È sconcertante costatare che ben rari sono stati gli studi che si sono proposti di rispondere a queste domande, quasi che una condizione di perpetua emergenza abbia costretto ad occuparsi solo dell’immediato, anche in termini di studio del fenomeno: ciò che contava era analizzare i dati statistici individuando le tendenze, valutare l’efficacia dei trattamenti, e via di seguito, il tutto per fornire la cassetta degli attrezzi alle politiche di contrasto via via elaborate. È appena il caso di osservare che al disinteresse italiano per l’origine del fenomeno si è contrapposto un vigoroso fiorire di studi storico-sociali soprattutto di matrice anglosassone, che sfortunatamente non riescono a trovare traduzioni nella nostra lingua se non, in genere, che per le opere più banalmente divulgative, quasi a testimoniare di un generale disinteresse per quegli aspetti del consumo non terapeutico delle sostanze psicotrope non immediatamente spendibili sul piano operativo. Un disinteresse che ha tuttavia un costo e non solo sul piano strettamente culturale, in quanto implica il rischio di ripetere errori già commessi. Come ha osservato la storica inglese Virginia Berridge, i decisori politici il più delle volte non sono consapevoli della risonanza storica delle loro iniziative, nel senso che non tengono conto del fatto che esse sono sovente riproposizioni di iniziative già poste in atto in passato e i cui risultati meriterebbero una accurata disamina partendo proprio dalla costatazione che la loro riproposizione suggerisce la loro precedente inefficacia (Berridge, 2010). Per fortuna le cose stanno cambiando e negli ultimi anni sono apparsi studi dedicati agli aspetti storici e culturali della tossicodipendenza in Italia da parte di un ristretto manipolo di autori, avanguardia, si spera, di un più sistematico lavoro di scavo scientifico i cui risultati non potranno non contribuire a un più ragionato approccio al problema. Si veda in particolare Vanessa Roghi con il suo bellissimo Piccola città, tra vissuto familiare e storia (Roghi, 2018), e il più recente Eroina (Roghi, 2022); e poi Matteo Pasetti che, da valente storico dell’Italia contemporanea, ha individuato in un suo recente saggio il vasto ventaglio di snodi storici del fenomeno meritevoli di approfondimento (Pasetti, 2020); e Maria Elena Cantilena che ha analizzato l’arrivo dell’eroina nella prospettiva dei movimenti extraparlamentari degli anni settanta (Cantilena, 2022); un mio studio, infine, ha ricostruito i determinanti politici, nazionali e internazionali, che hanno condizionato lo sviluppo della legislazione italiana sugli stupefacenti precedente all’arrivo dell’eroina in strada (Nencini, 2017). In questa cornice siamo particolarmente grati a “Medicina delle Dipendenze” che, prendendo spunto dalla sessione del recente congresso nazionale della Società Italiana Tossicodipendenze dedicata all’arrivo dell’eroina in Italia, ha voluto riservare un numero monografico ad aspetti storico-sociali del fenomeno ritenuti meritevoli dell’attenzione del lettore. Un primo aspetto qui trattato è costituito dalla lunga incubazione del fenomeno stesso, essendo l’eroina giunta in Italia a cavallo del Novecento come sedativo della tosse, ritenuto particolarmente utile nel paziente con tisi polmonare, ancor prima che venisse impiegata come analgesico. Sebbene il farmaco non abbia mai scalzato la morfina da analgesico di prima scelta, il suo mantenimento in farmacopea fu strenuamente difeso dai clinici che ancora nel dopoguerra tenteranno un’ultima difesa prima che l’eroina fosse definitivamente esclusa dall’impiego terapeutico nel 1951. Dovranno trascorrere un paio di decenni perché il farmaco, cacciato dalle farmacie, facesse la sua comparsa nelle strade e ciò malgrado una nuova legge avesse fin dal 1954 incrudelito le sanzioni penali non solo per gli spacciatori e i trafficanti, ma anche per i semplici consumatori. Del tutto inaspettato, l’arrivo del consumo voluttuario di eroina creò sconcerto nell’opinione pubblica e Matteo Pasetti descrive il progressivo mutarsi dell’immagine del consumatore di droghe da “malato” e “vittima” a “minaccia pubblica”, prendendo come punti di riferimento il discorso del Presidente Pertini per il capodanno del 1979, dove era rappresentata la prima immagine attribuendola alla crisi occupazionale che colpiva le giovani generazioni, e quello del presidente successivo Cossiga per il capodanno del 1989 dove il consumo di stupefacenti diveniva un cancro che minacciava la società. Una trasformazione operata da una rappresentazione sensazionalistica da parte dei media che inevitabilmente suscitava paura nell’opinione pubblica e incoraggiava il mondo politico a perseguire un approccio fortemente proibizionista. Questi consumatori erano giovani e giovanissimi e la narrazione prevalente da parte dei media li collocava tra i militanti della sinistra extraparlamentare, ma nel suo articolo Maria Elena Cantilena ci rende una realtà assai più complessa mostrandoci una netta contrapposizione tra i gruppi controculturali che avevano come punto di riferimento riviste quali “Re Nudo” e “Stampa Alternativa”, e consideravano la cannabis e gli allucinogeni come strumenti di una liberazione rivoluzionaria che partiva dalla soggettività, mentre i gruppi operaisti e marxistileninisti erano radicalmente contrari all’uso di qualsiasi sostanza in quanto indice di disimpegno politico. I due movimenti concordavano invece nel rifiuto dell’eroina la cui diffusione così improvvisa veniva attribuita a un complotto della CIA mirante a destabilizzare i movimenti giovanili nati dal ’68. L’eroina troverà spazio nel Movimento del ’77 e in particolare nella sua componente creativa e il suo uso entrerà nelle opere di autori di assoluto valore quali Andrea Pazienza e Pier Vittorio Tondelli. Opere che tuttavia segneranno l’inizio di una nuova stagione nella quale impegno politico-culturale ed eroina seguiranno strade divergenti. In che misura il disturbo da uso di sostanze ha colpito il mondo femminile e in che misura le donne hanno avuto accesso ai servizi di assistenza? Sono domande a cui Anna Paola Lacatena risponde nel suo articolo, notando come i pregiudizi di genere che gravavano e continuano a gravare sulla donna l’abbiano fin dall’inizio scoraggiata dall’accedere ai servizi falsando anche le valutazioni statistiche sul suo reale coinvolgimento nell’abuso di sostanze. Donne o uomini che fossero, gli assuntori di eroina per via endovenosa andarono presto e in gran numero incontro ad una malattia del tutto sconosciuta caratterizzata da una drammatica caduta delle difese immunitarie, era l’AIDS. Vanessa Roghi ricostruisce il clima di panico creato da una malattia che sembrava colpire categorie umane già fortemente stigmatizzate come i tossicodipendenti e gli omosessuali e come questa selettiva vulnerabilità ostacolasse, ancor più che in altri paesi, la pronta adozione di provvedimenti razionali di contrasto. Del resto il nostro paese si mostrò lento ad assumere provvedimenti razionali anche nell’eroinomane non affetto da AIDS e Ernesto de Bernardis, basandosi sugli archivi del “Corriere della Sera” e de “l’Unità”, oltre che sulla letteratura medica in lingua italiana, analizza come si dipanò una dura polemica contro il trattamento sostitutivo con metadone, identificato come “droga di stato” oppure “droga della mutua” sulla base di pregiudizi ideologici che impedivano di recepire quanto già acquisito in quei paesi che da tempo avevano dovuto affrontare il problema della dipendenza da eroina. L’autore descrive con impietosa lucidità i contraddittori interventi dei decisori politici che quei pregiudizi trasformavano in provvedimenti operativi finché l’epidemia di AIDS costrinse anche i più riottosi ad accettare ciò che doveva essere chiaro fin dall’inizio e cioè che la terapia sostitutiva era uno strumento indispensabile nella misura in cui limitava i danni sanitari e sociali della diffusione dell’eroina. Fu dunque la forza delle cose a imporre le sue ragioni consistenti nella necessità di mantenere la funzionalità sociale dei soggetti dipendenti, con il progressivo allargarsi dell’intervento mirante alla riduzione del danno consistente nell’offerta integrata di trattamento farmacologico e psicosociale. Claudio Cippitelli completa questa ricostruzione notando come sia stato a lungo sottovalutato il ruolo svolto dal sociale non solo nel generare i consumi di droghe, ma anche nell’offrire risposte di cura e di reintegrazione. Ne fornisce un eccellente esempio descrivendo come questa offerta integrata si sia sviluppata in un quartiere periferico di Roma, il Tufello, attraverso un lavoro sociale e politico dal basso, capace di indurre gli abitanti del quartiere ad accogliere il Programma Integrato di Riduzione del Danno quando, a partire dai primi anni Novanta, verrà attuato a Roma e implementato da una realtà di terzo settore, l’Associazione Parsec. In conclusione, abbiamo cercato qui di ricostruire il clima sociale e culturale nel quale cinquant’anni fa, quasi all’improvviso e dopo una lunga marginalità terapeutica, l’eroina ha fatto la sua comparsa come sostanza d’uso voluttuario, e come, tra molte controversie si è cercato di affrontare il problema. Molto resta ovviamente da studiare, soprattutto per individuare quali siano stati i fattori, certamente numerosi e anche di ordine internazionale, che hanno determinato un così improvviso attecchire di un fenomeno che a lungo era stato estraneo alla società italiana. Forse aveva semplicemente ceduto la diga millenaria del vino come unico strumento di ebrezza sotto la pressione della curiosità che nei più giovani suscitavano quelle nuove esperienze psicotrope che tanto spazio già trovavano nelle sottoculture giovanili di altri paesi? Sta di fatto che quella che era sembrata un’emergenza da arginare e sopprimere, a distanza di mezzo secolo è divenuta, anche per il nostro paese, parte integrante della complessità della società contemporanea. Prendere atto di ciò, attraverso la consapevolezza del percorso storico che il consumo di sostanze psicotrope sta seguendo, può aiutare a governare un fenomeno che si è cercato vanamente di estirpare.