Addiction e COVID-19. In Italia servizi e consumatori resistenti e resilienti
Paolo Jarre
‘Cries for help’: drug overdoses are soaring
during the coronavirus pandemic. Così titolava
il Washington Post il 1 luglio 2020. Spiegava poi
come negli USA, a livello nazionale, le overdose
sospette fossero cresciute del 18% in marzo,
del 29% in aprile e del 42% in maggio secondo
i dati provenienti dai servizi di emergenza, dagli
ospedali e dalla polizia (Wan & Long, 2020).
Consultando l’utilissimo sito nostrano www.
geoverdose.it si può facilmente verificare –
tenendo conto di tutti i possibili problemi di
sottonotifica mediatica in epoca di lockdown
– come in Italia, invece, le morti sospette per
overdose nei primi otto mesi del 2020 non solo
non siano aumentate, ma siano addirittura
diminuite: 146 decessi contro i 175 e i 179 nello
stesso periodo del 2018 e del 2019.
Si tratterebbe di un dato assolutamente
clamoroso e misconosciuto; nelle due regioni
più colpite dalla pandemia nel nord-ovest
del Paese le morti per overdose sono quasi
dimezzate, passando da 20 a 11 in Lombardia
e da 11 a 6 in Piemonte negli otto mesi. Il dato
appare in calo in 17 delle 20 regioni italiane,
con un aumento di un certo rilievo nella sola
Emilia-Romagna (da 20 a 24 casi).
In Piemonte, alla data del 16 settembre 2020
la prevalenza dell’infezione diagnosticata con
tampone era di 7,80 casi per 1000 abitanti
(Il Sole 24 Ore, 2020); quasi 34.000 persone,
comprensive di quelle diagnosticate perché
sintomatiche (per molto tempo in Piemonte si
sono fatti tamponi solo ai sintomatici e questo,
come si è misurato dopo, è costato caro), di
quelle individuate in quanto contatti tracciati
(spesso tardivamente) e, nell’ultimo periodo, di
alcuni tra coloro che erano risultati positivi al
test sierologico. I decessi alla stessa data sono
stati 4153, con un tasso dello 0,96 per mille.
L’indagine nazionale di sieroprevalenza IgG ha
dimostrato, sempre in Piemonte, un tasso di
positività del 30 per mille, quasi quattro volte
superiore ai soggetti diagnosticati con prova
biologica (www.sanitainformazione.it).
Il Dipartimento Patologia delle Dipendenze
dell ’ASL TO3 ha trattato nel 2019
complessivamente 2447 persone per DUS
(disturbo da uso di sostanze, 1519) e DUA
(disturbo da uso di alcol, 928); se nella
popolazione trattata (essendo escluse dal
conteggio le persone trattate per dipendenza
da nicotina e con dipendenze comportamentali)
si fossero riprodotti gli stessi tassi della
popolazione generale (da 0 a 120 anni)
avremmo dovuto misurare sinora 19 casi
diagnosticati di COVID-19 (e almeno un paio
di morti) e avere (in maggioranza inconsapevoli)
73-74 casi sierologicamente positivi.
Noi siamo a conoscenza al 15 settembre 2020
(si tratta ovviamente di un dato empirico ma
molto suggestivo) di 3 soli casi di soggetti in
carico; 2 DUS di cui uno positivizzato durante
un ricovero internistico e un alcolista, tutt’e 3
ora guariti. Abbiamo inoltre notizia di altri 2 casi
tra gli alcolisti non in carico (uno preso in carico
dopo aver superato positivamente la malattia e
uno in carico in passato, ricoverato in una RSA,
deceduto). Riferendosi ai soggetti in carico si
tratta quindi di una prevalenza di casi manifesti
di oltre sei volte inferiore all’atteso teorico.
Riferendoci al personale dell’ASL TO3
globalmente inteso, la diagnosi molecolare ha
riguardato il 4,3% dei dipendenti, a cui, con
un’indagine sierologica a tappeto, si è aggiunto
un altro 4,7% (corrispondente a 200 operatori
positivi al test sierologico, inconsapevoli, di
cui 9 trovati successivamente positivi anche al
tampone).
In totale, il 9% dei dipendenti dell’ASL TO3
(oltre 4000 operatori complessivamente) ha
incontrato il virus. Riferendoci al dato dei soli
operatori dipendenti del Dipartimento Patologia
delle Dipendenze abbiamo misurato solo 2
soggetti positivi (un sintomatico diagnosticato
Addiction e COVID-19.
In Italia servizi e consumatori resistenti e resilienti
con tampone e un asintomatico diagnosticato
sierologicamente) su 92 operatori testati (tutti
meno uno), una prevalenza complessiva del 2,2%
(inferiore anche al dato del 2,6% del personale
scolastico testato ad agosto). Tra gli operatori SerD
dell'ASL TO3 una prevalenza quattro volte inferiore
all’atteso teorico.
Nelle comunità terapeutiche piemontesi
accreditate non è stato diagnosticato un solo caso
di positività.
Il dato relativo alla ridotta prevalenza di casi
COVID-19 nell’utenza SerD è condiviso, per ora a
livello qualitativo, tra tutti i servizi piemontesi ed
è oggetto di attenzione anche a livello nazionale
(viene riferito nell’articolo dell’EMCDDA in questa
monografia).
Qui mi fermo con i numeri.
Qualcuno, a proposito dell’incontro tra pandemia
e addiction, parlava di “tempesta perfetta”
(Arsenault, 2020) anche se altri contestavano
la terminologia (Brandt & Botelho, 2020). Si
evince questo tipo di impostazione ad esempio
dall’editoriale di Nora Volkow che abbiamo voluto
porre a introdurre questo fascicolo.
Possiamo affermare che probabilmente negli USA
le cose sono andate e stanno andando in questo
modo: una pessima gestione della pandemia (o
meglio una mancata gestione in buona parte
degli Stati) e una sciagurata policy in termini di
commercializzazione dei painkiller oppiacei si sono
coniugate come fuoco e benzina.
In Italia no. Addirittura meno morti di prima
sicuramente e molto probabilmente molti meno
malati dell’atteso. Perché? Per ora si possono fare
solo delle ipotesi.
Quella che mi sembra più suggestiva è che la
pandemia, nel raggiungere il nostro mondo, abbia
incontrato, mi si perdoni il bisticcio di parole, servizi
e utenti “già vaccinati”.
Vaccinati “da bambini” con la pandemia da HIV
che ha colpito in Italia molto più che altrove gli
utenti degli allora CMAS che sono stati costretti,
fin dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, a
cominciare a ragionare in termini di sanità pubblica.
Ciò che ha costituito l’innesco per la nascita della
riduzione del danno in Italia nei primi anni Novanta.
Vaccinati con numerosi “richiami”, talvolta dolorosi,
costituiti dal dover operare in ristrettezze, sotto
l’alone dello stigma (che fa ombra, si badi bene,
non solo sull’utenza ma anche su chi se ne occupa),
in frontiera, nel selvaggio west, “dormendo con il
coltello sotto il cuscino”.
Servizi che, con una quotidiana vigilanza rispetto
alle patologie infettive associate ai consumi
di sostanze, una cultura di promozione della
salute coniugata a una pratica clinica “creativa”
in una cornice (non costante) di rispetto
dell’autodeterminazione dei consumatori, si sono
trovati molto più rapidi e pronti di altri a fare
quanto necessario, con pochissime o nulle risorse
e con tecniche spesso più da guerriglia che da
guerra in campo aperto, per proteggere i propri
utenti e i propri operatori, senza un eccessivo
sacrificio degli interventi offerti. E consumatori
“scafati” e disciplinati allo stesso tempo, resilienti
- empowered -, abituati da decenni, anche se fragili,
alla navigazione con cattivo tempo. Pazienti nella
migliore delle accezioni possibili.
Spero di non essere stato troppo ottimista.
Alla prossima.