La prevenzione primaria è quell’insieme di azioni che ha l’obiettivo di prevenire una patologia attraverso la riduzione o l’eliminazione dell’esposizione ai fattori di rischio ad essa correlati. Questa definizione, in tema di dipendenza da sostanze psicoattive, si focalizza su due momenti della sua storia naturale: all’inizio, cioè nella prevenzione dell’uso, quando l’esito da prevenire è la dipendenza in sé intesa come patologia (Leshner, 1997), e alla fine, quando l’esito da prevenire è una patologia causata dalla sostanza stessa, come il tumore del polmone o la cirrosi epatica, e la prevenzione ha come obiettivo l’eliminazione dell’esposizione ai relativi fattori causali, il tabacco o l’alcol.
In questo numero monografico di Medicina delle Dipendenze ci occuperemo solo della prevenzione primaria delle dipendenze, ma questo non semplifica affatto il nostro compito, per almeno due ragioni. La prima è che, mentre non tutti i consumatori di sostanze diventano dipendenti, persino l’uso occasionale di droghe può condurre alla dipendenza (Leshner, 1997; 1999). Seppure la probabilità di sviluppare dipendenza al variare della sostanza è poco studiata, è ben conosciuto il fatto che il tabacco e le sostanze oppiacee hanno un’elevata capacità di indurre dipendenza, la cannabis presenta una bassa capacità di dipendenza, mentre l’alcol e la cocaina sono in una posizione intermedia (Anthony et al., 1994). In numeri, questo significa che circa una persona su tre che prova anche una sola volta il tabacco o l’eroina, una su sette una bevanda alcolica o la cocaina e una su quattordici la cannabis, diventa dipendente. Questi dati, in assenza di teorie capaci di spiegarci i determinanti della progressione dall’uso alla dipendenza, sono la base per definire che la prevenzione primaria deve mirare alla prevenzione dell’iniziazione all’uso di sostanze, e che, trattandosi di una condizione cronica recidivante, la prevenzione primaria dovrebbe avere un ruolo centrale nelle politiche di controllo delle dipendenze. La seconda ragione è che gli interventi devono essere concentrati intorno all’età dell’iniziazione, che corrisponde ai primi anni dell’adolescenza. Nello studio HBSC (Health Behaviour in School-aged Children), l’età media dell’inizio dell’uso di tabacco e alcol era tra i 12 e i 13 anni sia per i ragazzi che per le ragazze nei paesi europei (Currie et al., 2004). L’articolo di Chiellini et al., in questo numero di MDD, ci suggerisce che l’inizio di uso della cannabis è di poco posteriore. Inoltre, gli adolescenti che iniziano a usare sostanze precocemente hanno peggiori esiti, a seconda delle sostanze d’uso; chi inizia precocemente infatti: 1) diventa fumatore abituale più facilmente e ha una minore probabilità di smettere (Tyas & Pederson, 1998); 2) ha una maggiore probabilità di sviluppare dipendenza, con una riduzione del rischio del 14% per ogni anno di ritardo dell’inizio dell’uso (Grant & Dawson, 1997); 3) ha un maggior rischio di abuso e dipendenza da droghe (Hawkins et al., 1992).
Visto che la prevenzione deve diminuire l’esposizione ai fattori di rischio, di cosa stiamo parlando? I fattori di rischio del primo uso di sostanze psicoattive sono una complessa costellazione di fattori, legati alla disponibilità di sostanze, all’influenza sociale e ai tratti del carattere (Hawkins et al., 1992). Il fattore disponibilità, indiscutibile cardine di ogni teoria, nei decenni passati è stato interpretato come un insieme di interventi repressivi e punitivi, che va sotto il nome di “war on drugs”. Questa strategia, da più parti criticata nel corso degli anni, appare attraversare una fase di profondo ripensamento. Notevole ad esempio è l’inversione di tendenza dell’amministrazione Obama, che nell’aprile 2012 ha lanciato la nuova National Drug Control Strategy (www.whitehouse.gov/ondcp/blog), che riscrive molti capitoli della strategia americana contro le droghe. In particolare, a noi interessa il risalto che viene dato alla prevenzione individuale perché “…put simply, drug prevention saves lives and cuts long-term costs” e inoltre la parte in cui si sottolinea che “each dollar invested in an evidence-based prevention program can reduce costs related to substance use disorders by an average of US$18”.
Mentre non discuteremo oltre degli interventi sulla disponibilità, e neppure dei fattori sociali, oggetto di un recente numero monografico di questa rivista (MDD 5/2012 “I determinanti sociali nell’uso di sostanze”), in questo numero affronteremo gli interventi di prevenzione dell’iniziazione dell’uso di sostanze psicoattive focalizzati sui fattori individuali. In particolare, verrà analizzato il punto di vista epidemiologico (Chiellini et al.) e quello delle teorie psicologiche (Gremigni); verranno descritti gli interventi che gli studi scientifici hanno identificato come efficaci (Amato) e verrà effettuato un approfondimento sui programmi scolastici su cui più si è investito in questi ultimi anni (Vigna-Taglianti et al.).
Prima di affrontare la lettura dei singoli contributi scientifici che compongono questa monografia, vorremmo suggerire un paio di chiavi di lettura. La prima ha a che fare con la complessità. L’espressione “costellazione di fattori di rischio” che più sopra abbiamo usato, in realtà non può restituire la complessità dell’eziologia dell’iniziazione, perché focalizza solo il numero, ma non la complessità dei rapporti reciproci. Se pensiamo alle possibili interazioni fra singoli fattori individuali, ad esempio l’impulsività, con fattori ambientali, quali la disponibilità, la prevalenza d’uso, la percezione della prevalenza, etc., ci possiamo rendere conto di quanto possa essere complesso ciò di cui parliamo. Questo insieme di fattori è almeno altrettanto “delicato” di quanto non lo siano, ad esempio, i meccanismi fisiopatologici di una malattia “organica”. E come per le malattie organiche, un intervento su uno specifico meccanismo può portare effetti positivi, ma anche effetti collaterali o francamente iatrogeni. La letteratura scientifica è ricca di esempi di interventi di prevenzione dell’uso di sostanze psicoattive che hanno dimostrato di produrre effetti avversi, di tipo iatrogeno: il programma scolastico Life Education, ad esempio, condotto all’inizio degli anni Novanta nella maggior parte delle scuole medie australiane, ha dimostrato di aumentare il consumo di tabacco e di alcol di circa il 40% (Hawthorne, 1996); la campagna di prevenzione dell’uso di alcol, tabacco e cannabis condotta dal National Drug Control Policy americano e abbondantemente finanziata dal Congresso, ha dimostrato di aumentare del 21% il consumo di cannabis nei giovani più esposti, confrontati con quelli meno esposti (Hornik et al., 2008). Recentemente, un programma scolastico americano basato sui life-skills denominato Take Charge of Your Life (TCYL), elaborato dal National Institute on Drug Abuse (NIDA), ha dimostrato di produrre effetti avversi, in particolare un aumento significativo di uso di tabacco e alcol e di episodi di ubriacature (Sloboda et al., 2009). Si tratta di casi emblematici di interventi accomunati da una solida base teorica, da un forte supporto economico e da agenzie di riferimento altamente autorevoli (il NIDA per gli ultimi due). Ma si tratta di fattori che evidentemente non bastano ad assicurare l’efficacia dell’intervento.
Ma questo vuol dire che tutti i programmi basati sui life-skills, o tutte le campagne di comunicazione, producono effetti avversi? Certamente no; però, allo stesso modo, un programma basato sui life-skills non è necessariamente efficace. Il problema è che la complessità dell’eziologia si riflette sugli interventi. Gli interventi di prevenzione sono sovente molto complessi e agiscono su numerosi fattori di rischio e di protezione contemporaneamente, attraverso meccanismi molto diversi. Il programma di prevenzione dell’iniziazione dell’uso di tabacco, alcol e droghe denominato Unplugged, di cui tratta l’articolo di Vigna-Taglianti, ad esempio, ha dimostrato una solida efficacia in uno studio multicentrico che ha coinvolto sette paesi europei. Unplugged è composto da dodici unità di life-skills, che agiscono su dodici fattori di modulazione del rischio di iniziazione; altre componenti dell’intervento sono: la sua natura interattiva, il docente come unico somministratore dell’intervento, il manuale molto dettagliato e il corso di formazione degli insegnanti (Faggiano et al., 2010). Ma quale di queste componenti ha contribuito all’efficacia del programma? Quali fattori si possono considerare attivi, e quali neutri, o addirittura nocivi? Non è possibile dirlo. Lo studio ha valutato il risultato dell’insieme degli ingredienti, senza poter distinguere il ruolo di ognuno, né le loro possibili interazioni. Ma come è possibile che Unplugged e TCYL, due interventi simili, basati su presupposti analoghi, producano risultati così diversi e contrastanti? Una ricerca collaborativa sta cercando di rispondere a questo quesito. Confrontando i programmi, le differenze più importanti sembrano essere nel modo in cui sono stati somministrati: dall’insegnante di classe, Unplugged, e da un formatore esterno, TCYL (Faggiano, Sloboda in preparazione). Questa osservazione conduce gli autori a elaborare due conclusioni: 1) variazioni anche piccole nei contenuti e nella modalità di somministrazione possono determinare grandi differenze di effetto; 2) programmi molto ben strutturati, basati su ottime premesse teoriche, economiche e organizzative, possono produrre risultati opposti a quelli ricercati.
Così, la complessità dei fattori in gioco, e l‘ampia insufficienza dei nostri strumenti di ricerca sui determinanti di oggetti complessi come i comportamenti umani, fa sì che le teorie non siano sufficienti a costruire interventi efficaci. Questa riflessione conduce alla seconda chiave di lettura: per evitare di produrre effetti iatrogeni, l’unica strada è adottare interventi che siano in possesso di risultati di efficacia derivanti da studi di valutazione rigorosi e ripetibili.
Ma come è la situazione della prevenzione in Italia? Alla luce di quanto detto, ci sono luci e ombre. Da un lato in Italia si svolge ricerca di qualità, come ad esempio lo studio EU-Dap (www.eudap.net) che ha prodotto e valutato il programma Unplugged, o ancora gli studi randomizzati e controllati per la valutazione di interventi scolastici e di laboratori di prevenzione attualmente condotti dalla Regione Emila-Romagna, ma anche l’adattamento di LifeSkills Training (citato nell’articolo di Celata in questo numero di MDD) da parte della Regione Lombardia. Altre luci sono i Piani Regionali di Prevenzione che testimoniano la graduale adozione di programmi efficaci, anche scolastici come Unplugged. Oppure il programma Guadagnare Salute in Adolescenza (www.inadolescenza.it), che mira a selezionare a livello nazionale interventi efficaci e a diffonderli a livello regionale. Dall’altro lato abbiamo però delle ombre: da parte delle amministrazioni centrali vi è una sottostima della necessità di implementare programmi efficaci e di fare ricerca valutativa. In realtà, qualcosa si muove: il programma Guadagnare Salute, di cui si è accennato in precedenza, ancorato nel Ministero della Salute con il contributo del Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM), sta muovendosi nella direzione della evidence-based prevention (EBP). La seconda ombra è la frattura di competenze esistente in Italia fra l’ente competente per la prevenzione generale, il CCM appunto, e quello competente per la prevenzione dell’uso di droga, il Dipartimento per le Politiche Antidroga (DPA), che è parte essenziale del cast di attori della prevenzione descritti da Celata nel suo articolo. Per quanto assurdo sia, in Italia le politiche di prevenzione dell’uso di tabacco e alcol sono separate da quelle di prevenzione dell’uso di droga, pur condividendo l’apparato teorico, il setting e gran parte degli interventi. E non solo sono separate, ma mostrano approcci diversi: orientati alla EBP quelle del CCM, non orientati in tal senso quelli del DPA. Infatti, da una analisi estensiva del sito del DPA (www.politicheantidroga.it) effettuata da uno degli autori (FF) in occasione della stesura di questo articolo, non sembrano essere presenti progetti di prevenzione primaria basati su prove di efficacia. Nonostante l’accento innovativo di molti progetti (l’uso di teleconferenze a scuola, drug test, etc.), i relativi interventi di prevenzione non appaiono essere stati valutati in precedenza da studi rigorosi, e non riportano espliciti piani di valutazione, oltre a una valutazione di gradimento (DPA sd; DPA, 2011). Non possiamo escludere tuttavia che si tratti solo di una mancata documentazione di risultati di studi di valutazione in realtà condotti. Suggeriamo in tal caso di affiancare ad ogni progetto presentato una sintesi dei metodi e dei risultati della relativa valutazione, al fine di documentare le basi scientifiche su cui poggia.
L’applicazione agli articoli di questo numero di MDD delle chiavi di lettura suggerite può fare emergere quelle che riteniamo siano le principali priorità della prevenzione dell’uso di droghe in Italia: 1) aumentare l’accesso a programmi efficaci, attraverso un maggiore investimento nella valutazione di programmi promettenti, e l’adattamento di programmi valutati a livello internazionale (come il già citato LifeSkills Training); 2) disincentivare l’adozione di interventi non valutati, e promuovere il reinvestimento delle risorse risparmiate in programmi efficaci; 3) includere la prevenzione dell’uso di droghe nell’ambito della più ampia strategia di prevenzione dei principali comportamenti a rischio in adolescenza, condivisa con gli altri attori della prevenzione e basata su interventi dotati di solide prove scientifiche di efficacia.