Food addiction: una questione controversaPrevenire l’uso problematico di internet durante la pandemia di COVID-19: linee guida condivise
Salvatore Amadori
Dipartimento di Medicina
Clinica e Sperimentale
Sezione di Psichiatria
Sara Ricciardulli
Dipartimento di Medicina
Clinica e Sperimentale
Sezione di Psichiatria
Samuele Torrigiani
Dipartimento di Medicina
Clinica e Sperimentale
Sezione di Psichiatria
Tea Ivaldi
Dipartimento di Medicina
Clinica e Sperimentale
Sezione di Psichiatria
Donatella Marazziti
Dipartimento di Medicina
Clinica e Sperimentale
Sezione di Psichiatria
Armando Piccinni
Saint Camillus International
University of Health
and Medical Sciences
UniCamillus, Roma
Articolo di 4 pagine in formato digitale pdf
L’idea che il cibo possa costituire una sostanza d’abuso, è un concetto che compare per la prima volta nel 1890 all’interno della rivista Journal of Inebriety, riferendosi al cioccolato. Il termine food addiction (FA) fu introdotto solo più tardi, dal medico Theron Randolph nel 1956 per descrivere un’elevata sensibilità individuale nella ricerca di determinati cibi, più frequentemente grano, frumento, latte, uova, patate. Tale visione si è modificata nel corso degli anni, individuando come cibi con maggiore potenzialità d’abuso, ossia capaci di sviluppare dipendenza, quelli altamente palatabili, ricchi in zuccheri, grassi e sale. Negli ultimi decenni il concetto di FA ha ricevuto una risonanza sempre maggiore, non solo a livello della comunità scientifica, ma anche a livello mediatico, in modo particolare in relazione all’aumento della prevalenza dell’obesità nel mondo occidentale.