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Il craving: stato dell’arte e prospettive future

La tossicodipendenza è malattia cronica ad andamento recidivante che comporta modificazioni di funzioni d’organo tali da dar luogo a sintomi sia somatici che comportamentali e compromette fortemente la qualità di vita del paziente. L’andamento recidivante presuppone delle fasi di remissione anche di completo benessere e di durata imprevedibile, ma con un’elevata probabilità di ricaduta. Fattori ambientali costituiscono la causa più frequente scatenante sia delle remissioni che delle ricadute. Il tossicodipendente ha sempre coscienza del suo stato di necessità per una sostanza potenzialmente o già di fatto per lui nociva. Questa consapevolezza, che viene espressa dall’interessato in termini più o meno ambigui, spesso manipolatori anche verso se stesso, non esercita alcun controllo sui suoi comportamenti tossicomanici. Ma questa non è l’opinione dominante. Per ancora troppe persone il tossicodipendente è sempre in grado di controllare il consumo di sostanza che utilizza per sua scelta libera e cosciente. In altre parole, il tossicomane è del tutto responsabile delle sue azioni e della sua condizione. Lo stesso genere di ragionamento porterebbe a considerare responsabile l’ossessivo delle sue ossessioni e il fobico delle sue fobie. Il sintomo caratteristico della tossicodipendenza è il craving. Il significato letterale di questo termine è “voglia” e suoi sinonimi sono desiderio e appetizione. Tutti questi termini non contemplano la compulsività, nel senso anglosassone della parola, cioè l’ineluttabilità, insita nella definizione clinica. Nella clinica il craving è impulso a operare sul quale il paziente non ha capacità di controllo. Il craving non è un sintomo primario, ma appreso. Infatti, essendo impulso ad agire, anche se compulsivamente, per ottenere la sostanza da consumare, esso deriva da un comportamento operante legato all’effetto rinforzante della sostanza. In laboratorio il comportamento di appetizione, che viene instaurato nell’animale, può essere di diversa natura e, in genere, è preceduto da un evento ambientale che assume il ruolo e la definizione di stimolo discriminante. La sequenza stimolo discriminante-comportamento operante non ha il carattere di ineluttabilità quale appare nella sequenza stimolo-riposta di un riflesso; nel comportamento operante lo stimolo comporta solo un aumento della frequenza di risposta. Nel primo caso l’organismo non è capace di prevenire la risposta, nel secondo caso appare in grado di scegliere se emettere o non il comportamento operante una volta percepito lo stimolo discriminante. Se, però, il rinforzo al comportamento operante è quello derivato dall’uso di una sostanza come la cocaina o l’eroina, la frequenza con cui la risposta operante segue lo stimolo discriminante può arrivare ad assumere il carattere di ineluttabilità, come se si trattasse di un riflesso stimolo-risposta. In questo caso la spinta ad agire è divenuta superiore a quella indotta da qualsiasi altro rinforzo e non è sminuita dal rumore di fondo di qualsivoglia evento esterno. L’impulso o spinta è diventato sintomo cioè craving, il comportamento che ne deriva è compulsivo, cioè incontrollabile, e il consumatore è diventato tossicodipendente. La spinta ad un comportamento operante dipende dallo stato di necessità e dall’emotività. La spinta della fame, dell’appetito sessuale o di altre forme di appetizione per il soddisfacimento di necessità connesse alla conservazione dell’individuo e della specie dipende dal grado di deprivazione, che determina lo stato di necessità. Un organismo mangia se ha fame, si accoppia se ha appetito sessuale e la deprivazione di cibo e di sesso determinano la condizione di fame o di appetito sessuale che comportano l’atto consumatorio. Esiste una sorta di gerarchia in queste spinte comportamentali. Un cane affamato può rifiutare il cibo se impegnato ad affrontare un altro cane che minaccia di invadere il suo territorio o se impegnato a corteggiare una femmina in calore. Ma, cessata la risposta emotiva iniziale, in entrambi i casi non rinuncerà a mangiare. L’atto consumatorio del cibo non è solo connesso allo stato di deprivazione, ma può essere sollecitato nell’animale sazio da un cibo particolarmente palatabile, come nell’uomo avviene quando a fine pasto viene presentato il dessert. La condizione di fame indotta dal cibo palatabile nell’organismo non deprivato è mediata da un aumentato tono del sistema oppioidergico e la somministrazione di un antagonista oppioide, che non agisce sul consumo di cibo di un animale deprivato, la previene. Il piacere appartiene, quindi, anche alla sfera dell’emotività, da tenere distinta per quanto possibile da quella dello stato di necessità. L’efficacia delle emozioni sul controllo del comportamento è nell’uomo indiscutibile. Si potrebbe, quindi, dire che un comportamento operante può essere determinato da entrambe queste spinte, così come è vero che un’emozione intensa può ridurre fino ad annullare una spinta comportamentale e viceversa. Le sostanze usate a scopo non medico sono accomunate dall’effetto stimolante sui centri della gratificazione, cioè dalla loro capacità di provocare una sensazione di piacere. In quanto inducono un’emozione gradevole esse sono in grado di motivare l’organismo a operare per ripeterla. Ciascuna di queste sostanze produce piacere in maniera dose dipendente e secondo una curva dose risposta a campana: cioè dosi troppo elevate determinano effetti che riducono fino ad annullare quelli di dosi euforizzanti ottimali. Inoltre, le caratteristiche del piacere prodotto variano da sostanza a sostanza come intensità, come sensazioni soggettive e come meccanismo d’azione, anche se tutte inducono un aumento di dopamina extraneuronale nell’area più esterna del nucleus accumbens. Nella fase definita della luna di miele i comportamenti di appetizione e consumazione sono giustamente paragonati a quelli di un innamorato felice, la motivazione che determina la frequenza di detti comportamenti è sostenuta dall’aspettativa di un piacere garantito dalla consumazione della sostanza. L’unico stimolo discriminante capace di iniziare il comportamento operante di appetizione è la notizia della disponibilità della sostanza. In questa fase il consumatore mantiene il controllo sull’uso della sostanza. La durata di questa fase è cruciale per lo strutturarsi, nel consumatore, dell’illusione che tale controllo non verrà mai perso e che un semplice atto di volontà possa riattivarlo. Ma la luna di miele lentamente si estingue col comparire della dipendenza e dei primi sintomi di astinenza. Alla ricerca del piacere (reward craving), che non si estinguerà mai, si unisce la spinta dovuta alla deprivazione, la cui intensità è correlata a quella dei sintomi di astinenza (relief craving). A questo punto, i sintomi fisici determinano la spinta comportamentale, quelli psichiatrici (ansia, agitazione, demoralizzazione) caricano di emotività sia il reward craving che il relief craving. La suscettibilità a discriminare gli stimoli ambientali che segnalano la disponibilità della sostanza si accentua a causa dello stato di necessità; i comportamenti che ne derivano sono sotto il controllo di una miscela di emotività e stato di necessità che si esprimono come sintomi fisici e psichiatrici che il paziente vive come malessere intollerabile in quanto istantaneamente eliminabile con la sostanza. Per cui l’operatività volta a ottenere la sostanza conosce pochi limiti alla sua espressione e facilmente assume il carattere aggressivo della manipolazione, dell’insistenza eccessiva, fino alla violenza fisica. Il tono dell’umore si mantiene basso e contrasta con la determinazione e l’efficacia dell’azione espressa. Il craving per la sostanza diviene, a questo punto, compulsivo nel senso anglosassone della parola, ossia non può essere fermato. Nella psicopatologia di stampo europeo meglio sarebbe dire discontrollato. I comportamenti appetitivi di un eroinomane hanno, a questo punto, la stessa potenza espressiva dei comportamenti di un paziente fobico-ossessivo o, addirittura, delirante. Nonostante che il craving rappresenti il sintomo cardine del disturbo da uso di sostanze, solo il DSM- 5 lo pone fra i criteri diagnostici di malattia, non definendolo nei suoi aspetti comportamentali che probabilmente variano da sostanza a sostanza e dovrebbero essere obbiettivabili sul piano clinico. L’esperienza rimane soggettiva e quantificabile solo in base all’esperienza del soggetto relativamente al suo passato. Nel futuro occorrerà dare maggiore risalto alle covariate comportamentali del craving con speciale riferimento all’alcol, alla cocaina e all’eroina. Analizzare i comportamenti sostenuti dal craving può essere, infatti, una valida alternativa verso una oggettivazione e standardizzazione del fenomeno craving. I comportamenti scelti dovrebbero essere sensibili e permettere di indirizzare il colloquio clinico verso aspetti meno soggettivi dell’esperienza tossicomanica. Dovrebbero, inoltre, consentire di indagare anche aspetti del craving non riconosciuti tali dal paziente, evitando, nella pratica clinica, di limitare l’uso di dosaggi anti-craving. Nel monitoraggio del paziente dovrebbero, infine, rappresentare un valido punto di appoggio per verificare l’efficacia del trattamento, discriminando la piena risposta terapeutica del soggetto dalla semplice riduzione del danno. Soggetti che continuino a presentare, durante il trattamento, comportamenti da craving dovrebbero essere rivalutati e i regimi terapeutici dovrebbero essere rivisti. Il relief craving non andrebbe solo correlato alla sindrome d’astinenza primaria rappresentando l’astinenza secondaria o ipoforia la via comune della malattia e lo stimolo principale per la ricaduta. Quindi, dopo il superamento delle prime fasi di una sindrome d’astinenza primaria, il proseguimento della terapia agonista consentirà di modulare il più possibile i sintomi residui. Queste molecole potrebbero avere un maggiore impatto clinico se venissero utilizzate in una seconda fase dopo il superamento della sindrome da astinenza acuta, nei pazienti resistenti e che non rispondono al trattamento, quando i sintomi astinenziali siano ormai risolti o, comunque, ridotti. Un’ulteriore sfida da affrontare è rappresentata dalla tendenza ad escludere i pazienti tossicodipendenti dalle sperimentazioni cliniche di farmaci anticraving per il rischio spesso solo ipotizzato, senza dati oggettivi, che questi farmaci possano avere un impatto negativo sulla patologia somatica. In particolare, ulteriori sforzi dovrebbero essere fatti sia per testare nei pazienti con patologie d’organo nuovi farmaci che per valutare l’impiego clinico di quelli già disponibili.