Medical cannabis
Gian Luigi Gessa
Dopo una millenaria militanza nella medicina del
mondo, nel 1942, la cannabis è stata rimossa dalla
farmacopea degli Stati Uniti e nel 1970 collocata
nella Tabella I (Schedule I), la categoria delle droghe
più pericolose, con alto potenziale d’abuso e
di nessuna utilità nella medicina. Lì la cannabis è
rimasta per quasi mezzo secolo. Durante la proibizione,
i malati di AIDS, sclerosi multipla, cancro in
fase terminale, dolore neurogenico cronico, fibromialgia
hanno fumato la marijuana del mercato
illegale, ignorando la legge, i pericoli del fumo, il
passaggio alle droghe pesanti, la presenza del diserbante
paraquat, per lenire il dolore, la nausea,
il vomito, l’anoressia, gli spasmi muscolari e per
resistere alla voglia di morire.
In diversi stati americani, a partire dalla metà degli
anni Settanta, a quegli infelici veniva concesso un
tesserino sanitario che permetteva l’acquisto della
marijuana legale presso un dispensario statale, in
quantità limitata, per uso personale. Nel Colorado
il compenso del medico, non obiettore, era di 60
dollari. È sceso a 20 dopo che la marijuana è stata
legalizzata.
In generale, i malati di AIDS giudicavano la
marijuana legale, come pure quella illegale,
molto più efficace del Marinol, il THC di sintesi,
assunto per via orale. È probabile che quei malati,
già esperti nel fumo della marijuana, massimizzassero
gli effetti positivi del THC dosando la
frequenza e la profondità delle tirate e spaziando
le fumate lungo il corso della giornata. Tuttavia,
la loro osservazione contiene il più importante
problema nell’uso medico della cannabis: la scarsa
e variabile biodisponibilità (la percentuale della
molecola che penetra nel sangue e nei tessuti)
dei cannabinoidi e del THC in particolare.
I cannabinoidi sono molecole altamente liposolubili,
non si sciolgono nell’acqua. Assunto col
fumo, il THC penetra velocemente nei polmoni e
da questi nel sangue e nel cervello: pertanto gli
effetti del THC fumato sono quasi immediati ma
durano poche ore. Inoltre, solo una percentuale
del 5-20% del THC presente nel fumo arriva nei
polmoni, con una variabilità individuale dipendente
dall’esperienza del fumatore. Assunto per
via orale, solo una piccola percentuale del THC
entra nel torrente circolatorio: il THC viene in
parte degradato nello stomaco, passa la barriera
intestinale in modo parziale, viene inattivato in
buona parte dal fegato.
Al fine di migliorare la bassa e variabile biodisponibiltà
del THC sono state individuate differenti formulazioni
(associazione del THC col cannabidiolo,
complessi del THC con ciclodestrine, inclusione
del THC in liposomi), vie di somministrazione alternative
a quella orale (sottolinguale, transdermica,
per inalazione, che evitano il filtro intestinale
ed epatico), ingegnose tecniche di erogazione
(vaporizzatori, sigarette elettroniche, cerotti).
Un esempio di somministrazione sottolinguale
è lo spray Sativex, approvato per il trattamento
della spasticità e dolore nella sclerosi multipla: è
una miscela in parti uguale di THC e CBD, disciolti
in etanolo e glicole propilenico; la soluzione è irritante
per la mucosa orale, ha un cattivo sapore e il
THC viene assorbito in modo variabile. Purtroppo,
queste strategie non hanno migliorato significativamente
la biodisponibilità del THC, né ridotto
la grande variabilità individuale rispetto alla somministrazione
in olio, decotti, infusi, capsule gelatinose,
preparati in modo officinale o magistrale
dal farmacista, né rispetto alla automedicazione
con la marijuana fumata, legale o illegale.
È sorprendente che in nessuno degli studi inclusi
nella revisione sistematica della letteratura internazionale
pubblicata dal gruppo di Marina
Davoli sia stata verificata la biodisponibilità della
“cannabis medica”, una verifica che potrebbe
spiegare perché per alcuni la cannabis medica è
miracolosa, per altri inefficace e, per altri ancora,
intollerabile.