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Migranti, fragili e dipendenze

In questo numero – come già preannunciato nel precedente fascicolo – si conclude la disamina del complicato intrecciarsi della condizione di migrante in Europa e il consumo più o meno problematico di sostanze psicoattive. Viene quindi approfondito, sotto diversi punti di vista, il tema del rapporto tra le disabilità intellettive e la neurodiversità e i disturbi da uso di sostanze, sia in termini di deficit cognitivi associati al consumo problematico di sostanze psicoattive sia relativamente all’impatto del consumo di sostanze nei soggetti con deficit cognitivi preesistenti e/o con disturbi dello spettro autistico. Infine, si affronta il rapporto tra una delle principali condizioni di fragilità “di contesto” – lo stato di carcerato – e la dipendenza da sostanze, in termini di accesso a cure appropriate e di fornitura di interventi di riduzione del danno, laddove oggettivamente necessario. È inoltre presente in questo numero un’interessante ricerca, di Rocco Mercuri ed altri, sull’utilizzo, lungo un consistente lasso di tempo, dello strumento “comunità terapeutica” da parte di un Dipartimento delle Dipendenze piemontese che individua alcune importanti variabili a proposito del più costoso – per il contribuente e per il paziente – e più controverso (in termini di evidenze di efficacia) intervento trattamentale dell’ambito dei disturbi da addiction. Samantha Harris ed altri, esaminando una imponente mole di dati in Svezia, confrontano la probabilità di manifestare un disturbo da uso di sostanze in una coorte di immigrati, rifugiati o meno, nel Paese, in confronto a quella dei nativi. La conclusione, sorprendente solo per chi ragiona per stereotipi e luoghi comuni, è che gli immigrati hanno un rischio nettamente inferiore di essere diagnosticati come affetti da disturbo da uso di sostanze illegali e alcol sia che si trovino nella condizione di protezione come rifugiati sia che non siano in tale condizione. L’aspetto interessante inoltre è che è il tempo di permanenza in Svezia il principale fattore di rischio nell’avvicinare a quella dei nativi svedesi la probabilità di sviluppare una dipendenza negli immigrati, quasi un beffardo contraltare negativo ai processi di integrazione. Tatiana Ramey e Paul Regier ci forniscono una accurata e dettagliata disamina di tutti i deficit cognitivi dimostrabili, grazie soprattutto alle nuove tecnologie diagnostiche, nei soggetti con disturbo da uso di sostanze e, accanto alle alterazioni nei domini esecutivi conosciuti (attenzione; inibizione/regolazione; memoria di lavoro; decision making), ci conducono ad approfondire la rilevanza di altri due ambiti nei quali possono essere dimostrate situazioni deficitarie, la precognizione e la cognizione sociale. Nita Bhatt e Julie Gentile esaminano la cooccorrenza di disabilità intellettiva e disturbo da uso di sostanze e, pur riscontrando una ridotta prevalenza di disturbi da uso di sostanze nei soggetti con disabilità cognitiva, pongono l’accento da un lato su una maggiore probabilità che in questi soggetti il mero consumo evolva in un comportamento problematico e dall’altro lato sulla necessità di adattare strumenti diagnostici e interventi terapeutici attualmente inadatti alle persone con deficit cognitivi. Anne Roux, nel lavoro sui disturbi da uso di sostanze nei soggetti con spettro autistico o con disabilità cognitiva, giunge a conclusioni analoghe in termini di minore prevalenza, anche se essa appare aumentare annualmente tra i gruppi di disabili (più che raddoppiata nel breve lasso temporale esaminato di quattro anni, dall’1 al 2,2%) e crescere più rapidamente ancora tra le persone con condizione di neurodiversità. L’abuso di alcol appariva come il più comune disturbo da uso di sostanze tra i soggetti con disabilità intellettiva, l’abuso di cannabis tra il gruppo di persone con disturbo dello spettro autistico. Il rischio di disturbo da uso di sostanze era più elevato, come atteso, tra i pazienti in comorbilità psichiatrica e, in particolare, con depressione. Daniela Ronco ci riporta in Italia e al rapporto tra carcere e disturbi da uso di sostanze. Ricordandoci come la elevatissima prevalenza di individui con disturbo da uso di sostanze tra le persone detenute in Italia rappresenti un’assoluta anomalia; ci descrive quest’intreccio come fortemente connotato da un processo di criminalizzazione della vulnerabilità (in continuità con quanto già ben argomentato nel fascicolo precedente) e dalla quasi totale assenza di interventi di riduzione del danno in carcere, assenza attribuibile da un lato al fatto che il consumo di droghe in carcere rappresenta ancora un tabù e non se ne può neppure parlare, dall’altro lato al continuo riemergere di pulsioni verso una incostituzionale afflittività della pena detentiva. Pulsioni che pervadono il nostro Paese proprio in questi mesi, nella discussione sulla natura e sull’utilità del regime carcerario in 41 bis.