Psichedelici: tra rischio, uso episodico e risorsa terapeutica
Filippo Della Rocca, Angelo G.I. Maremmani, Icro Maremmani, Manuel Glauco Carbone
La rinascita dell’interesse scientifico verso le
sostanze psichedeliche impone oggi una riflessione
attenta e non ideologica da parte di tutti
gli operatori sanitari. Dopo decenni di stigma,
le sostanze allucinogene come LSD, psilocibina,
mescalina e DMT stanno emergendo non solo
come oggetto di curiosità culturale, ma anche
come potenziali strumenti terapeutici. Tuttavia,
accanto all’entusiasmo crescente per le loro
applicazioni in psichiatria, permane il dovere
di comprendere in profondità la loro sintomatologia
clinica, il decorso delle intossicazioni,
la reversibilità degli effetti, le conseguenze psichiche
e somatiche a medio e lungo termine e
le condizioni per un eventuale uso in ambito
terapeutico controllato.
Le sostanze psichedeliche agiscono prevalentemente
sul sistema serotoninergico, in particolare
sui recettori 5-HT2A, modificando la percezione
sensoriale, il senso del tempo, l’emotività
e l’autocoscienza. Gli effetti si manifestano in
genere entro 30-60 minuti dall’ingestione o
inalazione, raggiungendo il picco tra le 2 e le
4 ore e tendendo a decrescere nelle 6-12 ore
successive. La sintomatologia acuta si presenta
con alterazioni sensoriali (intensificazione
di colori, suoni, forme), distorsioni percettive
(sinestesie, deformazioni del corpo), senso di
disintegrazione dell’ego, oscillazioni emotive
intense, e talvolta esperienze di tipo mistico o
trascendente. Nei casi meno favorevoli, si osservano
ansia paralizzante, attacchi di panico,
derealizzazione, disorientamento e, più raramente,
stati di tipo psicotico.
Dal punto di vista medico, le intossicazioni
acute da psichedelici puri sono raramente
pericolose per la vita. Non provocano, nella
maggior parte dei casi, depressione respiratoria
o cardiotossicità diretta. Tuttavia, le complicanze
possono derivare da comportamenti
a rischio durante l’esperienza (incidenti, auto-lesionismo),
dall’associazione con altre sostanze
(ad esempio cannabis, alcol, stimolanti), o
da una predisposizione psichiatrica latente. In
soggetti vulnerabili, un singolo “viaggio” può
scatenare episodi psicotici duraturi o disturbi
d’ansia cronici, come nel caso del disturbo da
percezioni persistenti, in cui il paziente sperimenta
flashback visivi o distorsioni sensoriali
anche mesi dopo l’uso.
Uno degli aspetti più discussi è il potenziale di
dipendenza. A differenza di oppiacei, stimolanti
o alcol, i classici psichedelici non inducono
craving o sindromi d’astinenza fisica. L’uso
compulsivo è raro e si osserva principalmente
in soggetti con tratti di vulnerabilità psicopatologica
preesistenti. La tolleranza, tuttavia,
si sviluppa rapidamente e scompare in pochi
giorni, scoraggiando l’assunzione frequente.
La maggior parte degli utilizzatori occasionali
interrompe l’uso spontaneamente, spesso dopo
poche esperienze, che possono essere sia gratificanti
che disturbanti. Il decorso dell’uso non
è dunque lineare: accanto a chi sperimenta benefici
soggettivi e interrompe, vi sono individui
che riportano episodi disforici o destabilizzanti,
seguiti dal successivo evitamento della sostanza.
In alcuni casi, l’interruzione non avviene per
scelta, ma per necessità, in seguito a effetti collaterali
o a pressioni sociali e familiari.
Le conseguenze psichiche dell’uso di psichedelici
sono altamente variabili. In contesti non
controllati, possono emergere stati dissociativi,
derealizzazione persistente, peggioramento
dell’umore e, in minor misura, manifestazioni
psicotiche. Tali effetti sembrano più frequenti
nei soggetti con familiarità per disturbi psichiatrici,
in particolare schizofrenia, disturbo
bipolare e disturbo borderline di personalità.
In ambito clinico controllato, invece, la somministrazione
di psichedelici mostra un profilo
di sicurezza sorprendentemente buono, con
bassi tassi di effetti avversi gravi. Questo rafforza
l’ipotesi che il contesto (“set
and
setting”)
sia cruciale nel determinare l’esito dell’esperienza.
Dal punto di vista somatico, le classiche triptamine
e feniletilamine psichedeliche non producono neurotossicità
strutturale, non danneggiano organi interni,
né inducono fenomeni di craving fisico. Tuttavia,
l’aumento transitorio della pressione arteriosa,
della frequenza cardiaca e la dilatazione pupillare
possono rappresentare un rischio in soggetti con
vulnerabilità cardiovascolare. Il rischio più significativo
rimane dunque quello comportamentale
e psicologico, specie se l’uso avviene in contesti
non protetti.
Negli ultimi anni, la letteratura scientifica ha rivalutato
il possibile uso terapeutico degli psichedelici
in ambiti selezionati. Studi randomizzati hanno evidenziato
effetti antidepressivi rapidi e persistenti
dopo una o due somministrazioni di psilocibina
in soggetti con depressione resistente. Altri studi
indicano benefici nel trattamento del disturbo
post-traumatico da stress (PTSD) con MDMA
in contesti
psicoterapici. La ketamina, pur non essendo
uno psichedelico classico, ha mostrato efficacia
nell’ideazione suicidaria acuta. I meccanismi ipotizzati
includono la disgregazione temporanea di
schemi rigidi di pensiero, l’apertura a nuove prospettive
esistenziali e la riattivazione di memorie
emotive in un setting supportivo.
Tuttavia, tali risultati vanno interpretati con cautela.
I campioni degli studi sono selezionati, l’effetto
placebo può essere potente, e i dati a lungo termine
restano scarsi. Inoltre, l’accesso terapeutico
è limitato da normative restrittive, mancanza di
formazione clinica adeguata e difficoltà logistiche.
L’uso terapeutico degli psichedelici non può essere
improvvisato: richiede protocolli rigorosi, ambienti
controllati, preparazione psicologica del paziente,
presenza costante di personale clinico e un percorso
di integrazione successiva.
Per i servizi sanitari, è essenziale adottare una posizione
informata e non ideologica. Gli psichedelici
non sono né una minaccia da reprimere né una
panacea da abbracciare acriticamente. Sono strumenti
complessi, ad alto impatto soggettivo, che
meritano studio, prudenza e un’eventuale regolazione
ponderata. È auspicabile che i sistemi sanitari
inizino a sviluppare linee guida per la formazione
degli operatori, per l’eventuale attivazione di studi
clinici controllati e per la gestione degli effetti avversi
nei pazienti che, anche in assenza di contesto
terapeutico, hanno fatto uso di queste sostanze.
In conclusione, la conoscenza approfondita delle
sostanze psichedeliche – nella loro azione farmacologica,
nei rischi acuti e tardivi, nella loro reversibilità
e nelle potenzialità terapeutiche – è oggi
una responsabilità per tutti coloro che operano
in sanità. La rivoluzione psichedelica, se governata
con rigore e senso clinico, potrebbe offrire
una nuova via di trattamento per pazienti che non
hanno trovato risposte nelle terapie convenzionali.
Ma solo la scienza, e non l’entusiasmo, potrà dirci
se e come questo nuovo paradigma potrà davvero
essere integrato nella medicina pubblica.