Quand’ero bambino mio nonno mi raccontava una favola che cominciava così: “In una casa piccola ma sporca vivevano due vecchietti poveri, malati ma disonesti...”. Fu allora che cominciai a dubitare che la mamma fosse sempre buona e che la realtà fosse, in realtà, maledettamente più complicata di quanto sarebbe stato comodo fosse. Parafrasando il celeberrimo Steps to an ecology of mind del 1972 di Gregory Bateson si può affermare che l’approccio della riduzione del danno (RDD) nell’universo dei consumi psicoattivi potenzialmente additivi affronta il tema con un’impronta ecologica, da “pensiero debole”, rifiutando i paradigmi assolutistici che vorrebbero ridurre la questione ad una lettura binaria, tutto/nulla. La riduzione del danno fotografa la realtà e disegna risposte tenendo conto delle infinite sfumature di grigio distribuite lungo un continuum senza soluzione di continuità. Gli appetiti psicoattivi come ci ha insegnato Jim Orford si distribuiscono secondo una gaussiana, non esistono i normali da una parte e i drogati dall’altra, così come esistono quelli che pesano 100, 101, 102, 103 e così via. È l’effetto distorsivo delle più svariate pressioni che fa sì che la curva venga premuta e appiattita verso l’asse delle ascisse facendoci “apparire” due popolazioni distinte e distanti; le pressioni normative, di ogni genere, sul crinale destro (quella degli appetiti via via crescenti… i voraci a destra, i normali a sinistra) e quelle commerciali sul crinale sinistro (gli appetiti troppo scarsi per le esigenze dell’economia…gli anoressici a sinistra e i normali a destra). Natura non facit saltus (Carl von Linné, Linneo, Philosophia Botanica, Stoccolma, 1751) da Aristotele. In realtà quindi la problematicità dei consumi psicoattivi è data dal peculiare incrocio in ciascun individuo, in dati tempo e contesto, di un numero infinito di distribuzioni gaussiane di elementi di forza e di resilienza e aspetti di fragilità e vulnerabilità, la maggior parte delle quali ignote e inintellegibili. Nulla fa male sempre a tutti, nulla fa bene, sempre, a tutti. Da alcuni decenni si sta consolidando l’evidenza che l’astensione totale sia, seppure in via teorica – parliamo qui dei consumi dannosi per la salute e non di quelli indispensabili per la sopravvivenza dell’individuo e della specie – un orizzonte auspicabile per tutti, un esito perseguibile in una minoranza di soggetti e solo per limitati periodi di tempo. D’altro canto è oramai opinione condivisa nel mondo scientifico – nel quadro di una visione più ampia del termine salute – che il “miglioramento delle condizioni di vita” lo si debba misurare soprattutto con l’utilizzo di misure di esito relative ad outcome diversi dalla mera astensione dall’uso di sostanze psicoattive, con impatto e significatività spesso maggiori sulla qualità della vita: lavoro, famiglia, relazioni, patologie associate e così via. La logica della misura, della moderazione o della temperanza, si va così riaffermando nel mondo scientifico, in contrasto ad un manicheismo tutto/ nulla; una concezione ecologica del piacere, concettualizzabile quale risorsa esauribile cui accedere con rispetto e parsimonia – una prospettiva più matura e realistica di quella dell’astensione assoluta. Orazio, poeta latino del I secolo avanti Cristo, diceva “Est modus in rebus, sunt certi denique fines / quos ultra citraque nequit consistere rectum” (C'è una giusta misura nelle cose, ci sono giusti confini / al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta). Anche al di qua. La riduzione del danno mira in modo olistico a recare benefici non solo alle persone che usano droghe, ma anche alle loro famiglie e a tutta la comunità locale; le persone sono accettate per come sono e non per come l’operatore o la società vorrebbero che fossero, opponendosi decisamente alla loro stigmatizzazione. Molti sono i fattori che contribuiscono ai rischi e ai danni correlati all’uso di droga, che non sono solo determinati dalla dannosità intrinseca di un dato oggetto/sostanza psicoattiva e/o dalla vulnerabilità individuale di una singola persona; hanno un peso enorme l’ambiente (cultura, regole sociali, tradizioni, economia, religione) nel quale il consumo si concretizza e le leggi e le politiche disegnate per il controllo dell’uso dell’oggetto additivo. Molte politiche e pratiche intenzionalmente o anche involontariamente creano ed esasperano i rischi e i danni per i consumatori. Tra queste, la criminalizzazione del mero consumo di un oggetto additivo, la discriminazione, le pratiche di abuso e di corruzione, leggi e politiche restrittive e punitive, la negazione di cure mediche salvavita e dei servizi di riduzione del danno (effettiva ancora in gran parte del mondo, anche in Europa e in Italia), le ingiustizie sociali in genere. Le politiche e le pratiche di riduzione del danno non possono esimersi dallo sfidare le leggi e le politiche nazionali e internazionali che creano ambienti a rischio per chi usa droga e contribuiscono fattivamente a provocare danni correlati all’uso di droga. La riduzione del danno, più che un insieme finito di pratiche e modalità di intervento (come quasi sempre è invece rappresentata, anche dagli stessi operatori), è un orientamento operativo – qualcuno utilizza il termine “filosofia” – volto al mantenimento/ ottenimento del massimo livello di salute possibile, compatibilmente con il persistere di uno stile di vita che non escluda consumi potenzialmente pericolosi per la salute stessa. La caratteristica peculiare è quella di mettere, con un approccio rigorosamente pragmatico, il focus sui danni potenzialmente conseguenti ad un uso problematico di oggetti psicoattivi (sostanze o oggetti immateriali) e sulle persone che continuano a farne uso (mortalità e morbilità), piuttosto che sulla prevenzione dell’iniziazione e/o sulla cessazione dell’uso e di prescindere da considerazioni di natura valoriale riferite alla messa in atto e/o al proseguire o meno del comportamento. Di fatto si tratta, riducendo all’essenziale, della traduzione nel concreto di principi plurimillenari della pratica dei medici e di tutti gli operatori della salute: molti sono gli aforismi o i motti nei quali si afferma, da sempre, “... quando non puoi guarire, cura, quando non puoi curare, stai ed ascolta e, se riesci/ti è permesso, comprendi e consola...”. La riduzione del danno costituisce il modello di intervento più congruo, flessibile e adattabile alle esigenze di ciascuno nell’affrontare un fenomeno che si manifesta (o appare secondo alcuni), per i suoi aspetti sanitari, secondo il modello medico della malattia cronico-recidivante, come ormai incontestabilmente provato dalle evidenze neurobiologiche e cliniche; i percorsi di vita delle persone che consumano in modo additivo oggetti psicoattivi sono sempre caratterizzati da un andamento ciclico, con un continuo alternarsi di remissione parziale/remissione completa/uso compensato/ scompenso, e caratterizzato da un progressivo sostituirsi e sovrapporsi di diversi oggetti di consumo. Occorre prestare grande attenzione a non cadere in una visione riduzionistica e caritatevole della riduzione del danno quale ultima spiaggia trattamentale, dopo che le si è tentate tutte; la cura palliativa per i resistenti/renitenti alle cure più tradizionali per i tossicodipendenti incalliti/ irrecuperabili e quindi posta in secondo piano (temporalmente e gerarchicamente), come cura secondaria, terziaria. Questo modo di intendere la riduzione del danno rappresenta spesso la massima concessione di chi la considera una pratica rinunciataria e collusiva. Non si finisce mai di sottolineare come la riduzione del danno rappresenti invece una sorta di forma mentis, una filosofia che informa tutte le strategie di fronteggiamento; il primo approccio, temporalmente e gerarchicamente, alla lettura/valutazione/ policy sanitaria e securitaria sugli effetti dei consumi psicoattivi, in armonia con l’imperativo ippocratico del primum non nocere. Il più economico, il più ecologico, il più rispettoso; anche per un pianeta che non potrà sopportare ancora per molto guerre, di qualsivoglia natura. *Parte del contenuto del presente editoriale è ripreso dalla voce, redatta dallo stesso autore, “Riduzione del danno” dell’Atlante delle dipendenze a cura di Leopoldo Grosso e Francesca Rascazzo, EGA, Torino, 2014