Sessualità e dipendenze
Matteo Pacini e Sarah Vecchio
Nell’esame delle questioni relative a un comportamento
umano patologico, la fisiologia (che
potremmo definire “normalità” nell’accezione
comune del termine) dovrebbe essere in teoria
una nozione già chiara. Tuttavia, il confine tra
fisiologia e patologia non è sempre così netto
come potrebbe apparire.
La patologia contempla infatti di per sé una serie
di condizioni “abnormi”, come ad esempio
le varianti morfologiche o di disposizione degli
organi, che possono non avere implicazioni cliniche.
Lo stesso accade per elementi semeiologici
fondamentali, che però possono anche essere
inquadrati come alterazioni “non patologiche”
di quel parametro, cosicché la condizione di chi
ha un’alterazione benigna è contemporaneamente
indicata con un termine che ne denota
la patologia (alterazione, anomalia, abnormità)
ma con la specificazione che si tratta di una
“non-condizione” in termini patologici. Si pensi
alle alterazioni costitutive del metabolismo della
bilirubina, o alla presenza ricorrente o abituale
di livelli eccedenti i limiti superiori di enzimi solitamente
associati a danno d’organo, senza che
questo corrisponda ad alcuna diagnosi o prognosi
patologica. Si pensi inoltre anche a condizioni
costitutive, geneticamente determinate, che di
per sé possono essere non note finché non si
manifestano per la resistenza a determinati farmaci,
o al contrario per la facilità a sviluppare
un’intossicazione per dosi terapeutiche degli
stessi (soggetti lenti o ultrarapidi metabolizzatori).
Alcune di queste varianti sono perfino accertate
come parte della routine ematochimica
preoperatoria, come il numero di dibucaina.
I piani di definizione del “patologico” comprendono
quindi sia lo stato patologico attuale, sia la
prognosi probabile di stato patologico, sia reazioni
patologiche in condizioni particolari, di per sé
non determinate da alcun parametro.
Quando si considera la classificazione del comportamento
umano, e la definizione della categoria
patologica di esso, le cose si complicano.
Entra in gioco infatti un aspetto cruciale della clinica
medica, ovvero la volontà e l’intenzione del
paziente di ricevere un intervento terapeutico
verso una determinata condizione, teoricamente
non desiderabile. Ciò non sarebbe un problema
se il punto di vista del clinico coincidesse con
quello del paziente, in termini di valutazione e
consapevolezza del problema e della sua natura.
Accade invece che un soggetto, consapevole del
potenziale lesivo o distruttivo di qualcosa che lo
riguarda, non concordi sulla natura patologica
dello stesso. Oppure concordi, ma non ritenga di
modificarlo nell’esercizio di una diversa visione
della propria esistenza.
L’intera clinica psichiatrica (e della medicina
delle dipendenze) si confronta con questo tipo
di situazione, poiché più o meno ogni condizione
di interesse psichiatrico può condizionarne
la consapevolezza, così come può indurre una
visione di sé, del mondo e del proprio scopo
e ruolo all’interno di questo in modo tale da
rendere tale condizione sensata, desiderabile o
comunque centrale nella propria esperienza di
vita. Tale, insomma, da non dover essere indicata
come patologica, o comunque non contrastata
o prevenuta.
A questo punto l’interpretazione può essere duplice
(e a tale proposito gli autori si sono a lungo
confrontati, e scontrati). Da un lato può risultare
difficile definire universalmente dei criteri per
la “indesiderabilità” di un elemento comportamentale,
che non sia la personale visione dell’individuo.
Un soggetto può ricavare dal bere un
danno organico, evolutivo, ma non ritenere di
rinunciarvi in ragione di un effetto piacevole, di
un’abitudine o di una generica libertà di autodeterminarsi.
L’impatto sulla funzionalità epatica rimarrà
patologico, ma tuttavia la definizione della
sua condizione come “alcolismo” non si compie.
Anche la definizione di “abuso” o genericamente
di “disturbo da uso di alcol” è opinabile, poiché si
definisce solo nel senso di una condotta di potus che
persiste nonostante la consapevolezza di un danno
somatico. Stesso dicasi per un fumatore con bronchite
cronica e vasculopatia che sia consapevole dei
rischi associati al fumo. Definire un “bere patologico”
o un “fumare patologico” come comportamento
abnorme è possibile, ma si ammette che il controllo
comportamentale sia mantenuto (non perso come
nell’addiction). Un approccio alternativo considera
come ininfluente la posizione dell’individuo rispetto
al proprio comportamento, che rimane patologico
nonostante il soggetto stesso non ne colga il rischio
o scelga di favorire gli aspetti che considera positivi
o benefici, sempre in un contesto in cui il controllo
sia mantenuto.
Il primo approccio valuta che per la definizione
dell’addiction occorrano fattori che indichino come
elemento patologico quello del comportamento rispetto
all’intenzione che il soggetto esprime, e che
corrisponde a un conflitto tra istinto e intenzione,
tra programma desiderabile e desiderio. L’interpretazione
alternativa considera il soggetto non in grado
di anteporre l’intenzione al desiderio (è capace di
intendere ma non di volere).
La questione spesso è omessa, semplicemente
perché l’esito di ogni programma di trattamento,
quando si parla di dipendenze, è idealmente l’estinzione
dell’uso. E anche quando si parla di un uso
problematico, l’obiettivo è tendenzialmente quello
di minimizzare o abolire l’uso, anche solo per motivi
legali.
Quando, come in questo lavoro, si affronta la variante
patologica di un comportamento che non solo ha
una sua variante fisiologica, ma è un comportamento
previsto nella norma della funzione organismica,
la cura della patologia dovrebbe, almeno idealmente,
preservare e consentire la fisiologia. Non vi è una
distanza reale tuttavia, poiché scopo vero della cura
di una dipendenza non è tanto l’estinzione dell’uso
in sé, quanto la riparazione del meccanismo distorto
della dipendenza, la riorganizzazione della funzione
cerebrale secondo un modello “libero” dalla rigidità
dei meccanismi della dipendenza, e la ricostruzione
della capacità di motivazione incentivata del soggetto
(ciò che comunemente si indica come funzione
edonica, o gratificazione).
Nella materia oggetto di trattazione, alla complicazione
del piano “psichico” appena descritta si aggiungono
anche quelle sociali, culturali e legali. Si
tratta infatti di una sfera comportamentale, e come
tale destinata ad avere conseguenze interattive,
visibili
o oggetto di giudizio esterno.
Da qui nascono alcuni quesiti, su cosa definisca una
sessualità “patologica”, molto più intricati di quanto
possa esserlo definire una iperbilirubinemia patologica.
A questa molteplicità di posizioni si aggiunge
poi il fatto che diverse di queste condotte hanno
una possibile evoluzione patologica, per cui ciò che
non è chiaramente patologico in una fase precoce
tende a divenirlo in una fase tardiva. Quando tende
a diventarlo, tende a diventarlo in più sensi: come
abnormità statistica, come eccesso quantitativo,
come perdita di controllo, come rischio di lesività
e di illegalità.
Ciononostante, il problema torna al momento del
trattamento. Il medico su quale “patologico” interviene:
in base alla diagnosi e sulla prognosi, di condizioni
indesiderabili per la persona, o anche quando
si tratta di condotte lesive e abnormi, ma sintoniche?
E, se sì, l’intervento avviene con la prospettiva che
il soggetto sviluppi in seguito anche autocritica,
o semplicemente per la possibilità di contenerne
il comportamento? La sessualità fisiologica di un
soggetto sessualmente sociopatico deve essere un
obiettivo del trattamento, o non necessariamente?
La vita sessuale di un soggetto con parafilie rischiose
può soltanto migliorare se la parafilia si estingue di
fronte a un trattamento? Anche su questo punto i
pareri degli autori sono discordi.
Al fine di discutere questi aspetti, faremo quindi una
disamina di varie questioni relative alle condotte
sessuali, spontanee o indotte. In chiusura, circolarmente,
saranno proposte alcune osservazioni su casi
reali o “finzioni” cinematografiche, esemplificative
dei punti che rimangono aperti.
Crediamo in ogni caso che non si debba fare confusione
sotto un profilo speculativo tra il concetto
di desiderabilità e di sostenibilità sociale dei comportamenti
umani, o della funzionalità rispetto alla
specie, e il concetto di compenso individuale, che è
possibile anche per soggetti antisociali e non destinati
a perpetuarsi per via riproduttiva.