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Sessualità e dipendenze

Nell’esame delle questioni relative a un comportamento umano patologico, la fisiologia (che potremmo definire “normalità” nell’accezione comune del termine) dovrebbe essere in teoria una nozione già chiara. Tuttavia, il confine tra fisiologia e patologia non è sempre così netto come potrebbe apparire. La patologia contempla infatti di per sé una serie di condizioni “abnormi”, come ad esempio le varianti morfologiche o di disposizione degli organi, che possono non avere implicazioni cliniche. Lo stesso accade per elementi semeiologici fondamentali, che però possono anche essere inquadrati come alterazioni “non patologiche” di quel parametro, cosicché la condizione di chi ha un’alterazione benigna è contemporaneamente indicata con un termine che ne denota la patologia (alterazione, anomalia, abnormità) ma con la specificazione che si tratta di una “non-condizione” in termini patologici. Si pensi alle alterazioni costitutive del metabolismo della bilirubina, o alla presenza ricorrente o abituale di livelli eccedenti i limiti superiori di enzimi solitamente associati a danno d’organo, senza che questo corrisponda ad alcuna diagnosi o prognosi patologica. Si pensi inoltre anche a condizioni costitutive, geneticamente determinate, che di per sé possono essere non note finché non si manifestano per la resistenza a determinati farmaci, o al contrario per la facilità a sviluppare un’intossicazione per dosi terapeutiche degli stessi (soggetti lenti o ultrarapidi metabolizzatori). Alcune di queste varianti sono perfino accertate come parte della routine ematochimica preoperatoria, come il numero di dibucaina. I piani di definizione del “patologico” comprendono quindi sia lo stato patologico attuale, sia la prognosi probabile di stato patologico, sia reazioni patologiche in condizioni particolari, di per sé non determinate da alcun parametro. Quando si considera la classificazione del comportamento umano, e la definizione della categoria patologica di esso, le cose si complicano. Entra in gioco infatti un aspetto cruciale della clinica medica, ovvero la volontà e l’intenzione del paziente di ricevere un intervento terapeutico verso una determinata condizione, teoricamente non desiderabile. Ciò non sarebbe un problema se il punto di vista del clinico coincidesse con quello del paziente, in termini di valutazione e consapevolezza del problema e della sua natura. Accade invece che un soggetto, consapevole del potenziale lesivo o distruttivo di qualcosa che lo riguarda, non concordi sulla natura patologica dello stesso. Oppure concordi, ma non ritenga di modificarlo nell’esercizio di una diversa visione della propria esistenza. L’intera clinica psichiatrica (e della medicina delle dipendenze) si confronta con questo tipo di situazione, poiché più o meno ogni condizione di interesse psichiatrico può condizionarne la consapevolezza, così come può indurre una visione di sé, del mondo e del proprio scopo e ruolo all’interno di questo in modo tale da rendere tale condizione sensata, desiderabile o comunque centrale nella propria esperienza di vita. Tale, insomma, da non dover essere indicata come patologica, o comunque non contrastata o prevenuta. A questo punto l’interpretazione può essere duplice (e a tale proposito gli autori si sono a lungo confrontati, e scontrati). Da un lato può risultare difficile definire universalmente dei criteri per la “indesiderabilità” di un elemento comportamentale, che non sia la personale visione dell’individuo. Un soggetto può ricavare dal bere un danno organico, evolutivo, ma non ritenere di rinunciarvi in ragione di un effetto piacevole, di un’abitudine o di una generica libertà di autodeterminarsi. L’impatto sulla funzionalità epatica rimarrà patologico, ma tuttavia la definizione della sua condizione come “alcolismo” non si compie. Anche la definizione di “abuso” o genericamente di “disturbo da uso di alcol” è opinabile, poiché si definisce solo nel senso di una condotta di potus che persiste nonostante la consapevolezza di un danno somatico. Stesso dicasi per un fumatore con bronchite cronica e vasculopatia che sia consapevole dei rischi associati al fumo. Definire un “bere patologico” o un “fumare patologico” come comportamento abnorme è possibile, ma si ammette che il controllo comportamentale sia mantenuto (non perso come nell’addiction). Un approccio alternativo considera come ininfluente la posizione dell’individuo rispetto al proprio comportamento, che rimane patologico nonostante il soggetto stesso non ne colga il rischio o scelga di favorire gli aspetti che considera positivi o benefici, sempre in un contesto in cui il controllo sia mantenuto. Il primo approccio valuta che per la definizione dell’addiction occorrano fattori che indichino come elemento patologico quello del comportamento rispetto all’intenzione che il soggetto esprime, e che corrisponde a un conflitto tra istinto e intenzione, tra programma desiderabile e desiderio. L’interpretazione alternativa considera il soggetto non in grado di anteporre l’intenzione al desiderio (è capace di intendere ma non di volere). La questione spesso è omessa, semplicemente perché l’esito di ogni programma di trattamento, quando si parla di dipendenze, è idealmente l’estinzione dell’uso. E anche quando si parla di un uso problematico, l’obiettivo è tendenzialmente quello di minimizzare o abolire l’uso, anche solo per motivi legali. Quando, come in questo lavoro, si affronta la variante patologica di un comportamento che non solo ha una sua variante fisiologica, ma è un comportamento previsto nella norma della funzione organismica, la cura della patologia dovrebbe, almeno idealmente, preservare e consentire la fisiologia. Non vi è una distanza reale tuttavia, poiché scopo vero della cura di una dipendenza non è tanto l’estinzione dell’uso in sé, quanto la riparazione del meccanismo distorto della dipendenza, la riorganizzazione della funzione cerebrale secondo un modello “libero” dalla rigidità dei meccanismi della dipendenza, e la ricostruzione della capacità di motivazione incentivata del soggetto (ciò che comunemente si indica come funzione edonica, o gratificazione). Nella materia oggetto di trattazione, alla complicazione del piano “psichico” appena descritta si aggiungono anche quelle sociali, culturali e legali. Si tratta infatti di una sfera comportamentale, e come tale destinata ad avere conseguenze interattive, visibili o oggetto di giudizio esterno. Da qui nascono alcuni quesiti, su cosa definisca una sessualità “patologica”, molto più intricati di quanto possa esserlo definire una iperbilirubinemia patologica. A questa molteplicità di posizioni si aggiunge poi il fatto che diverse di queste condotte hanno una possibile evoluzione patologica, per cui ciò che non è chiaramente patologico in una fase precoce tende a divenirlo in una fase tardiva. Quando tende a diventarlo, tende a diventarlo in più sensi: come abnormità statistica, come eccesso quantitativo, come perdita di controllo, come rischio di lesività e di illegalità. Ciononostante, il problema torna al momento del trattamento. Il medico su quale “patologico” interviene: in base alla diagnosi e sulla prognosi, di condizioni indesiderabili per la persona, o anche quando si tratta di condotte lesive e abnormi, ma sintoniche? E, se sì, l’intervento avviene con la prospettiva che il soggetto sviluppi in seguito anche autocritica, o semplicemente per la possibilità di contenerne il comportamento? La sessualità fisiologica di un soggetto sessualmente sociopatico deve essere un obiettivo del trattamento, o non necessariamente? La vita sessuale di un soggetto con parafilie rischiose può soltanto migliorare se la parafilia si estingue di fronte a un trattamento? Anche su questo punto i pareri degli autori sono discordi. Al fine di discutere questi aspetti, faremo quindi una disamina di varie questioni relative alle condotte sessuali, spontanee o indotte. In chiusura, circolarmente, saranno proposte alcune osservazioni su casi reali o “finzioni” cinematografiche, esemplificative dei punti che rimangono aperti. Crediamo in ogni caso che non si debba fare confusione sotto un profilo speculativo tra il concetto di desiderabilità e di sostenibilità sociale dei comportamenti umani, o della funzionalità rispetto alla specie, e il concetto di compenso individuale, che è possibile anche per soggetti antisociali e non destinati a perpetuarsi per via riproduttiva.